giovedì 6 marzo 2008

Palestina

Mia figlia Serena è partita due giorni fa per la Palestina. E' già il quarto anno che va e viene da questo paese martoriato dalla guerra. Fa parte di un progetto umanitario dell'Anpas di Bologna, finalizzato all'apertura di un centro per bambini, inizialmente gestito dagli operatori dell'Anpas, che in questo lungo periodo hanno formato operatori locali che gestiranno il centro in piena autonomia. Ieri ci ha telefonato, e questo ci ha rincuorato, ma come al solito sono stati bloccati a Tel Aviv dagli israeliani che li hanno tenuti fermi e interrogati per tutta la notte e per di più non gli hanno riconsegnato i bagagli. Immaginate quanto suo padre ed io, siamo combattuti tra la grande considerazione di quello che sta facendo nostra figlia e la preoccupazione di saperla lì, con il suo compagno.
Desidero fare partecipi tutti di questo progetto ( e non per mia figlia che è solo una piccola pedina di questa vicenda), ma soprattutto per far conoscere cosa vivono grandi e piccoli nei paesi devastati dall'odio e dalla violenza. Quello che pubblico di seguito è il resoconto del viaggio del 2006 scritto da uno degli operatori.



Il villaggio è praticamente stretto in una morsa. Adiacente ai confini segnati dalla green-line verso Israele mentre il lato interno, che porta in Cisgiordania, un territorio frastagliato dall’alternarsi di insediamenti israeliani e di villaggi palestinesi che è possibile cogliere solo di notte, grazie alle differenze di colore nell’illuminazione, arancio per i primi, bianco per i secondi, vede il muro in costruzione che di giorno in giorno s’allunga sempre più ed è tagliato dalla By-Pass Road, una strada agibile solo dagli israeliani che così possono aggirare in sicurezza i villaggi palestinesi e il loro territorio. Ci sono gravi carenze.

La comunità locale non ha una rete idrica e dipende dai pozzi collocati nelle terre confiscate dalla costruzione del muro. L’unico modo di accedere all’acqua è scavare profondi pozzi di raccolta nell’area del villaggio con il rischio che da un giorno all’altro possano essere distrutti per mancanza di permessi.


Per evitarlo si costruiscono pozzi in un terreno argilloso che spesso provoca la formazione di veri e propri tappi di terra, con il bisogno di essere ripuliti di frequente a mano, calandosi dentro, riempiendo secchi di fango fino a svuotarli per far tornare l’acqua a un livello accettabile e usufruirne nuovamente. I più fortunati hanno contenitori di raccolta sui tetti, una visione tipica di molti altri villaggi e città palestinesi che hanno lo stesso problema, mentre negli insediamenti israeliani l’acqua corrente non manca, così come non mancano gli annaffiatoi per irrigare i giardini privati.

Manca la rete stradale, fognaria, elettrica. La maggior parte delle strade che portano o permettono l’uscita dal villaggio sono state fatte saltare in più punti, con crateri profondi due o tre metri. Quelle ancora praticabili, sono sterrate e a tratti accidentate ai limiti della percorribilità. I controlli quotidiani dell’esercito israeliano si aggiungono a questo tipo di viabilità scarsissima comportando spesso l’impossibilità che arrivino i camion per svuotare le cloache, oppure che si vada a lavorare (il lavoro lo si trova solo se le autorità israeliane concedono i permessi), o peggio, che arrivi un’ambulanza [1]. Un gruppo di manovali provenienti da Hebron, per poter essere lì a guadagnare lo stretto necessario per vivere, doveva rimanere a dormire nelle fondamenta della scuola che stavano costruendo con i fondi delle Nazioni Unite (il programma UNRWA), nel silenzio, «immersi nel buio dopo il tramonto» raccontano, «per evitare che un controllo militare, nel migliore dei casi, trovandoci ci rispedisca a casa».


Può voler dire non far più ritorno sul posto di lavoro, negarsi persino la sopravvivenza. Ad Arab Ramadin è il ritmo solare che scandisce la giornata. «Quando è buio non è permesso più niente» dicono, «ma di giorno, non è che cambi molto, prendere una macchina è andare a Dahriya, una cittadina distante soli dodici chilometri, magari per trovare la farmacia che qui non esiste, è impossibile, i controlli militari sono snervanti e soprattutto rischiosi».

Ne ricordo uno in particolar modo. Siamo in cinque, tre adulti italiani, l’autista palestinese e il figlio, quattro anni. Ci mettiamo in coda alla fila, sono soprattutto mezzi pesanti. Spegniamo la macchina, si deve aspettare. Il bambino tace, solo pochi istanti prima allegro, giocava scambiando sorrisi e il suo sguardo vispo con noi. Dopo mezz’ora l’autista decide di superare almeno qualche camion, così, «quando sarà il momento di ripartire per la strada sterrata e stretta, saremo davanti e potremo recuperare un po’ del tempo perduto» ci dice.

I militari al primo blocco – ve ne è un altro collocato una settantina di metri più avanti, tutto intorno sono sparpagliati in divisa e in borghese, cercano qualcosa o qualcuno nel solito rastrellamento – strillano l’alt, uno continua a gridare e punta il mitra. Ci fermiamo ancora, spegniamo la macchina. Il militare continua, gioca con la prepotenza e inizia a ripetere divertito un numero col mitra: se lo alza sulla testa, lo porta lentamente braccia al petto, ce lo mostra, lo punta veloce sul bersaglio…noi. Il bambino oltre che taciturno è ora immobile, osserva , ipnotizzato dal comportamento. Tento di distrarlo con qualche diversivo ludico, non serve, è troppo concentrato su ciò che succede attorno. Il papà, alla guida, con la sua aria scoraggiata confessa, «ho imparato a tenere tutto, a non far vedere nulla a mio figlio, le emozioni che ti maturano qui te le devi tenere dentro». Passa ancora tempo, troppo. L’autista ci chiede di dire che siamo italiani, magari ci fanno passare prima, ma non si può, non si riesce neppure a parlare, a spiegare, dobbiamo restare lì, immobili. E' un pomeriggio d’agosto e ci sono quarantaquattro gradi. Ripartiamo dopo un paio d’ore, forse più, in mezzo a quel nulla riempito di violenza gratuita abbiamo perso il senso della misura. Intanto questo figlio, penso, assieme a molti altri figli, assorbe come spugna in un mare quasi secco l’inchiostro d’una quotidianità deformata, poi ne riversa poche gocce, quelle possibili per non morire di sete, e schizza su un foglio sporco trovato in macchina un’idea, accennando la rappresentazione del mondo in cui vive: guerra…invisibile guerra. Finalmente siamo al villaggio, il sole è all’imbrunire, tutti ci accolgono preoccupati, chiedono i motivi del ritardo, spieghiamo e nei loro volti si legge la rassegnazione, la rabbia.

Quando è buio ogni famiglia del villaggio accende il suo generatore di elettricità a benzina. Sa, da quel momento, che ha a disposizione circa tre ore di luce. Gayad, 50 anni, spiega, «il livello di benzina è collaudato, oltre questo consumo sarebbe impossibile, visti i costi». Parla di come la piccola economia del villaggio sin dal 1948 sia dipendente dal regime di occupazione che continuamente ha effettuato confische di terre per la pastorizia, demolizioni di case e di pozzi d’acqua che rappresentano per la comunità l’unica fonte d’approvvigionamento. In questo contesto di forte disagio sociale, di controllo psicologico e territoriale, ci sono i bambini, con in mano un permesse già all’età di dieci anni, altrimenti restano prigionieri del loro villaggio. Quando non sono a scuola gironzolano, fanno giochi riciclando come possono quel poco che gli adulti buttano via. Così, vecchie ruote di bicicletta o più spesso la compagnia degli animali utilizzati per lavoro si trasformano in antichi divertimenti. Questi bambini aiutano, si prodigano riempiendo l’acqua dai pozzi, scavandoli, svuotandoli, consapevoli che ognuno di loro è importante nelle scarse economie familiari. Arafat, 12 anni, racconta la sua giornata. Sveglia alle 6, una colazione semplice, pane arabo bagnato nell’olio con del tè, e poi col suo asino raggiunge il papà, porta fuori dal recinto il gregge e dopo un’ora circa va a scuola, fino alle 13.30. Arafat parla della sua quotidianità, «aiutare la mia famiglia dopo la scuola è l’unico modo che conosco di far passare la giornata a Ramadin». E allora eccolo diventare commerciante nel piccolo market di un cugino, oppure trasformarsi in pastore per pesare e segnare le pecore d’uno zio. I bambini sono immersi in un ambiente fortemente limitato dalle scelte conflittuali degli adulti di entrambe le parti, disegnano e offrono dettagliate fotografie della realtà che vivono, producendo i loro resoconti visivi. Occuparsene significa documentare l’assenza di tranquillità, l’idea che si fanno del nemico, e purtroppo anche come si preparino le guerre future. [2]

Nel disegno di Salam, così come in quelli di altri bambini, l’immagine del nemico è angosciante. Gli omini non rappresentano più uno dei semplici elementi che appartengono al disegno dell’infanzia, ma spietati combattenti. L’intera superficie del foglio è coperta dalle forze israeliane, i palestinesi che sono riusciti a penetrare verso il centro del foglio sono stati abbattuti. Quelli che sono ai margini vengono freddati sebbene fra loro ci siano già morti e i vivi tengano alzate le mani come per arrendersi (particolare questo, agghiacciante, che non lascia speranze). I loro mezzi, in quel centro impenetrabile dove non è permesso entrarci, bruciano. Il nemico è ben inquadrato. Il grafismo spoglio di questo disegno rappresenta i morti con un’obiettività sconcertante e l’immagine del nemico come insieme di uomini che non si ferma nemmeno davanti alla resa. Salam forse realizzerà quel sogno di vedersi giornalista. E' un bambino come tanti, ascolta, guarda, e talvolta disegna ciò che dalla realtà ha imparato, il nemico uccide, non permette nulla, si deve uccidere il nemico. Al di là di ogni presa di posizione politica Salam e altri bambini danno modo di vedere l’immagine che di questo insieme producono. Poi cresceranno, bypassati dal divertimento, dalla creatività che proietta l’infanzia nella ricerca di soluzioni positive, dall’idea di avere un’altra possibilità per il loro futuro. Diventeranno adulti, le idee cementeranno e con esse, le rispettive posizioni politiche (come finora è stato).

3 commenti:

helios ha detto...

Cara Luz, Ci sono molti modi, oggi, di produrre democraticissime schiavitù. Per questo non servono navi negriere, nè qualcuno dalla pelle nera che mormori "sì badrone". Non occorrono ceppi ai polsi e catene ai piedi. Non servono banditori di uomini in vendita all'incanto. E' sufficiente rendere difficile a un popolo di lavorare, di produrre, di studiare, di fare crescere sereni i figli, di progettare il futuro, di generare la propria vita. Basta, a volte, erigere un muro anche se dotato di aperture che rallentino il naturale moto quotidiano della gente, degli studenti, dei lavoratori. Basta mettere un freno allo sviluppo. Così si coltiva e si alimenta, chiamandolo nemico,anche un alibi chiamato Hamas.
Kunta Kinte è ormai lontano. Ma la Palestina è molto vicina. Come i negrieri del III millennio.

Elsa ha detto...

ciao,mi chiamo Elsa...
Penso che questi bimbi quando diventeranno grandi saranno lo specchio della realtà che li ha cresciuti.Ciò che scrivi è molto interessante e purtroppo vero.Vienimi a trovare.ciao
Elsa

Valen ha detto...

Ammiro tua figlia.
E come Elsa, penso che ognuno di noi ha i valori che la vita ci ha trasmesso, genitori e amicizie.

Ciao