lunedì 2 giugno 2008

Blackout


Giorni fa, a Bologna, in un pomeriggio piovoso, vicolo Bolognetti, la festa del libro al quartiere S.Vitale. Siamo entrati in un cortile con chiostro, dove era in atto un incontro con Gianni Celati ed altri scrittori emiliani. Che bello, ho ascoltato parole poetiche, parole parole, che rotolavano felici nelle bocche e che parlvano delle grandi case editrici, ne parlavano male, erano parole arrabbiate, poi c'erano le parole dolci delle poesie e le mani battevano il consenso per quelle parole belle!

Serena mi ha regalato un libro, perché lì c'erano anche quattro banchetti di librerie piccine picciò. E' un libro di Gianluca Morozzi, giovane, del '71, anche lui bolognese. "Blackout" si intitola, e l'inizio fra digrignare i denti per la ferocia, poi entrano in ballo altri personaggi. Tomas, per esempio, sedicenne che vuole fuggire ad Amsterdam con la sua ragazza, per non entrare nel tunnel "felice" dei propri genitori, bancari, felici appunto, perché hanno accettato i compromessi della società, ma poi dentro (poveri illusi) hanno mantenuto intatti sogni, gli atteggiamenti new age, i tatuaggi. Forse io non sono così diversa da questi genitori, ma il posto in banca nel '73 l'ho rifiutato e il lavoro al Sindacato dei bancari l'ho lasciato per imbarcarmi in un'avventura che mi avrebbe portato a lavorare due anni nel Terzo Mondo, che poi non se n'è fatto nulla perché ho incontrato "Marco grosse scarpe e poca carne, Marco cuore in allarme" e abbiamo messo su famiglia, ma sempre pencolando tra la miseria e il riso. Bè insomma, tutta questa tirata per dire che in quel chiostro, tra Serena e Carmelo, sono stata così bene, con tutte quelle parole che giravano e giravano, e ora me le ritrovo in questo libro che ho letto ancora poco e non so se mi piacerà per intero, ma che avrà sempre il profumo di un pomeriggio bolognese.

1 commento:

helios ha detto...

Luz, nelle tue parole non c'è solo amarezza per i tanti sogni rimasti a mezz'aria, né solo nostalgia di ciò che si sarebbe potuto fare (davvero sarebbe stato possibile potere?) e non si è fatto. C'è, mi pare, soprattutto, stanchezza per ciò che si fa o che non si fa, che è lo stesso. Scoramento forse giustificato da alcune circostanze che guardano all'inespresso, all'irrealizzato. Ma a ben vedere e a ben guardare, quegli anni, quella società che si voleva totalmente diversa, erano gli anni, per molti di noi, del "gran rifiuto". Dici bene e descrivi quasi tutto e tutti. Il posto in banca l'hai rifiutato; hai lasciato l'agevole sicurezza del lavoro al sindacato dei bancari per correre l'Avventura Ideale del Terzo Mondo. Certo era tutto maiuscolo, tutto lì da cogliere solo che lo si volesse. Poi "...non se n'è fatto nulla...".
Anche quello hai rifiutato. Rifiutavamo tutto, allora. L'autorità, la società, il passo troppo lento della vita, il suo tumultuoso sussultare in paradossale sincope. Credevamo solo nei sogni. Nel nostro sogno che assumeva il domani con incrollabile certezza. Sognavamo, tutti, come Antonia: “Grandi sogni: complicati e futili come la vita. Quasi sempre belli; a volte come la vita, anche insensati.” Come Antonia Renata Giuditta Spagnolini, la bella strega di Vassalli, chimera appassionata e vitale, per questo destinata a morte. Come noi, come te “Sognava il mare come un cielo capovolto…”. Volevamo capovolgere il nostro cielo, rimetterlo, anzi, marxianamente, sui piedi e ristabilire una volta per tutte lo stato di natura. Dimenticando che “natura” è tutto ciò che esiste. Anche noi. Anche loro. Credevamo che bastasse combattere a cielo aperto, a viso aperto, a cuore spalancato. Vivevamo dentro “La chimera”, dunque dentro la storia. Proprio come il bel libro di Vassalli spiega e denuncia e condanna. Molti di noi, come l’Antonia, finirono sul rogo. Altri ne uscirono segnati in profondità. Altri ancora ne furono solo sfiorati. Ma la forza irresistibile degli anni premeva e sospingeva in avanti. Verso dove, allora, nessuno di noi sapeva. Ci sembrava”… di capire, finalmente!, qualcosa della vita: un’energia insensata, una mostruosa malattia che scuote il mondo e la sostanza stessa di cui sono fatte le cose…”. La sostanza; il sogno. Ascolta il Duca di Milano: “Siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni.” Non credo alle coincidenze: l’azione del romanzo di Antonia, dei coniugi Nidasio, di don Michele, che dispensava grappa, medicamenti, acquasanta e chissà cos’altro, si svolge nello stesso secolo in cui il grande bardo di Stratford upon Avon scrisse "La tempesta”.
E intanto cerchiamo qualcuno da amare. E anche, per ragioni di essenziale simmetria, qualcuno da odiare. Ricerca, quest’ultima, a dire il vero non ardua. Ma l’odio sì. Odiare è un’arte difficile almeno quanto amare. Richiede volontà, tenacia di sentimento, forza d’animo, perseveranza d’intento. Soprattutto odiamo alcune idee. Odio distillato perché privo di agganci concreti, manipolabili, utilizzabili nel vivere quotidiano. “E’ l’odio puro: astratto, disincarnato, disinteressato: quello che muove l’universo, e che sopravvive a tutto. L’amore umano, tanto cantato dai poeti, a confronto dell’odio è quasi un fatto inesistente…”. E’ un falso d’autore “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Sono pagine istruttive e spietate quelle che Vassalli dedica alle “liti d’acqua” nella Bassa piemontese del Seicento.
Sono trascorsi quattro secoli. L’Italia non è più spagnolesca. L’acqua non rappresenta più o non ancora, un problema. Ma le liti, quelle non muoiono mai. E chi non litiga, non vuole litigare, come te, come noi, si “rifiuta”. E spegne la Tv. Fortunatamente nessuno può spegnere i sogni. Avanti.